“Non ho paura delle parole dei violenti ma del silenzio degli onesti” oggi, giornata di Pentecoste nella nostra Comunità per la Confermazione dei nostri ragazzi, celebriamo anche la memoria liturgica del Beato Pino Puglisi, martire
articolo tratto dal sito web www.beatopadrepinopuglisi.it
Don Pino Puglisi, che sorrise al suo assassino
di Gian Carlo Caselli
in “il Fatto Quotidiano” del 26 maggio 2013
Don Pino Puglisi muore (ce lo racconta il mafioso che lo uccise) sorridendo e pronunziando le parole “me lo aspettavo”. Cosa voleva dire, con quel sorriso e con quelle parole? Per il sorriso la risposta è facile, tant’è che don Pino è stato – ieri, a Palermo – beatificato come martire. La sua fede era profonda e sincera. Sapeva che la conclusione della vita terrena è solo un passaggio all’aldilà. Un passaggio per crescere: perciò sorrideva.
Ma le parole “me lo aspettavo”? Forse don Pino si è ricordato delle tante volte che – in vita – si era guardato intorno e si era trovato solo. Non perché fosse qualche passo avanti rispetto alla posizione che gli spettava. Ma perché restavano indietro, spesso molto indietro, coloro che avrebbero dovuto essere accanto a lui. E la solitudine, si sa, sovraespone. Anche quando, come don Puglisi, non si è “anti” mafia o “anti” qualcos’altro. Egli infatti era un prete “per”. Un uomo del Vangelo vicino ai giovani di Brancaccio che cercava di offrire e costruire con loro alternative di vita rispetto alla presenza egemonica di “Cosa Nostra”. E se c’è una cosa che la mafia non tollera è proprio il dissenso che ne contesta coi fatti (non con le parole o coi riti) l’egemonia. Specie se la contestazione viene da un sacerdote, posto che la mafia (caratterizzata da una sacralità atea) dietro la lupara ama coltivare i riti di un cattolicesimo fatto di santini, confraternite e devozioni.
Spesso con la tolleranza complice di molti uomini di Chiesa: ma non di padre Puglisi, che ben sapeva (e con coraggiosa coerenza operava) che la mafia è impoverimento della collettività, impedimento allo sviluppo, gravissimo peccato sociale (come aveva urlato ad Agrigento papa Wojtyla, qualche mese prima che a Brancaccio, nel feudo dei Graviano, si scatenasse la vendetta contro don Puglisi).
La solitudine di don Pino interpella la responsabilità di tutti quanti noi. L’elenco di coloro che hanno dato la vita per questo nostro Paese in segno d’amore, come testimonianza della loro fede laica o religiosa è lunghissimo. Recitarlo nelle cerimonie pubbliche non deve diventare un inganno, uno schermo dietro il quale nascondere le nostre responsabilità.
Dobbiamo perciò chiederci perché Falcone, Borsellino, Puglisi e tanti altri sono morti. Certamente perché la mafia li ha uccisi. Ma anche perché noi (noi Stato, noi Chiesa, noi cristiani) non siamo stati fino in fondo quel che avremmo dovuto essere. Non siamo stati abbastanza vivi. Non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia: nella professione, nella vita civile, politica, religiosa. I morti hanno visto il loro prossimo: la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e violenza, il mercato delle istituzioni, i giovani abbandonati per strada, facile preda del mondo illegale.
Questo hanno visto e per questo sono morti.
E noi invece, quante volte – invece di vedere il nostro prossimo–ci siamo accontentati della ipocrisia civile, abbiamo subito e praticato, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti?
Occorre che la società civile tutta insieme (Chiesa compresa) lavori per la sua dignità e libertà. La criminalità organizzata costringe il nostro popolo a subire infamie tremende e un doloroso turbamento sociale e morale. Occorre uno scatto di responsabilità. Superando un agire troppo vecchio o timoroso (talora persino connivente) e trovando il coraggio di rinnovare.
Per la Chiesa, senza coraggio non c’è freschezza del Vangelo. Non c’è speranza di slegare bende e bavagli che per troppo tempo hanno reso forti i mafiosi, mortificando i valori. Che l’esempio di padre Puglisi possa rafforzare la presa di coscienza di tutti contro la mafia. Guai se la sua beatificazione, invece di essere una piattaforma di rilancio dell’impegno comune, diventasse un comodo lavacro delle coscienze che faccia dimenticare le responsabilità di chi – ieri come oggi – lascia soli coloro che si impegnano.