Importante una precisazione: la pagina del Vangelo, anche di questa domenica, è una pagina densa e importante, ricchissima di sfumature, queste righe non sono esaustive, sono uno dei tanti sguardi che si possono dare. Prenderemo in considerazione solo alcuni dei tanti aspetti e solo alcuni dei personaggi presenti.C’è ben poco di mio in quanto segue, il mio è stato più che altro un lavoro di cucitura su testiesegetici di S.Grasso, R.Brown, N.Guerini, S.Fausti e A. Maggi.
Contestualizziamo il brano della “risurrezione di Lazzaro”
L’ultimo segno compiuto da Gesù è stato l’illuminazione del cieco: un segno che ci ha aperto gli occhi sulla realtà, mostrando la verità di Dio e dell’uomo. Ora, in questo testo, Gesù ci offre la libertà davanti al nostro limite ultimo: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi sulla morte, ipoteca di tutta la vita. L’uomo, a quel che sappiamo, è l’unico essere vivente cosciente di morire: sa di essere-per-la-morte. Non potendo vincerla, l’uomo cerca di rinviarla, rimuoverla, o, nel migliore dei casi, di interpretarla.
Guardare negli occhi la morte e scrutarne il mistero, è necessario per vivere. Altrimenti la nostra esistenza rimane una fuga, obbligata e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo. Salvarci da essa è il desiderio che detta ogni nostra mossa, ma sappiamo già in anticipo che sarà frustrato. Al riguardo è stato detto: “A pensarci bene, l’unica libertà che abbiamo è quella di chi deve essere giustiziato da un momento all’altro, con la tortura di non sapere quando”.
Il testo di questa domenica ci apre a prospettive “altre”: Gesù ci salva non “dalla” morte. È impossibile: siamo mortali. Ci salva invece “nella” morte. Gesù non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né ci toglie la dignità che deriva dal fatto di esserne coscienti; ci offre però di comprenderlo e viverlo in modo nuovo, come lo ha vissuto lui.
E ci apre a prospettive non scontate – che abbiamo potuto intuire, se non sperimentare, in questi giorni – ogni nostro limite, compreso l’ultimo, non è la negazione di noi stessi, ma luogo di relazione con gli altri e con l’Altro. Dove inizia il mio limite non comincia la constatazione del mio fallimento, ma l’opportunità di aprirmi alla vita dell’altro.
Un testo, quello che consideriamo, che ci fa vedere come si può vivere l’amore fino a dare la vita. La vita, come il respiro, non possiamo possederla e trattenerla: moriremmo subito. Dobbiamo spenderla: siamo liberi di spenderla nella ricerca dell’immediato tornaconto o investirla nell’amore, sapendo che: “chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv.12,25). Noi conosciamo una vita contrassegnata dalla morte; Gesù ci rivela una morte contrassegnata dalla vita.
Siamo davanti ad una pagina di “Vangelo” una buona notizia per la nostra vita, una buona notizia in un contesto, quello della morte, segnato da dolore, da tanti dubbi, per molti, da paura, che mette a seria prova il senso della nostra stessa esistenza.
Ci lasciamo accompagnare, ci lasciamo prendere per mano, affidandoci, fidandoci del cammino che ci viene proposto cercando, almeno per qualche istante, di lasciarci alle spalle o di non farci bloccare dal dolore, dai dubbi, dalla paura…
In questo brano si parlerà della nostra risurrezione, del nostro nuovo rapporto con la vita e la morte che viene attraverso la fede in Cristo che è risurrezione e vita.
Ora vi invito a leggere il testo del Vangelo di Gv. 11,1-45
Tutti i personaggi sono in movimento: Gesù e i suoi discepoli da oltre il Giordano a Betania, i giudei da Gerusalemme, Marta dal villaggio, Maria da casa e Lazzaro dal sepolcro. Anche il modo con cui il brano è costruito ci indica la necessità di uscire da un luogo per entrare e viverne un altro.
La famiglia di Betania, è composta soltanto da fratelli e sorelle. E’ chiaro il riferimento alla comunità cristiana dove non sono ammessi né superiori né inferiori, ma solo fratelli e sorelle.
Un intenso clima affettivo unisce queste persone a Gesù. L’evangelista sottolinea con insistenza l’amicizia del Maestro con Lazzaro (vv. 3.5.11.36). È il simbolo del profondo legame fra Gesù ed ogni discepolo: “Non vi chiamo più servi – dirà durante l’ultima cena – ma vi ho chiamato amici (Gv 15,15). In questa comunità accade un fatto che sconcerta, che pone di fronte a un enigma insolubile: la morte di un fratello. Che senso può avere un fatto del genere? Chi vuole bene a un amico non lo lascia morire. Se Gesù era amico di Lazzaro ed è nostro amico, perché non impedisce la morte?
Come Marta e Maria anche noi non comprendiamo perché egli “lasci passare due giorni”.
A cosa serve un Dio che non serve? Che “non c’è” nel momento del bisogno.
Da lui ci aspetteremmo, come segno del suo amore, un intervento immediato.
Il non tanto velato rimprovero che gli muovono le due sorelle è anche il nostro: “Se tu fossi stato qui, nostro fratello non sarebbe morto” (vv. 21.32).
La morte di una persona cara, la nostra morte, mettono a dura prova la fede, fanno sorgere il dubbio che egli “non sia qui”, che non ci accompagni con il suo amore.
“Lasciando morire Lazzaro”, Gesù risponde a questi interrogativi: non è sua intenzione impedire la morte biologica, non vuole interferire nel decorso naturale della vita. Non è venuto per rendere eterna questa forma di vita. La vita in questo mondo è destinata a concludersi, è bene che finisca. Gesù è venuto ad introdurci ad altro, a quella vita che non ha fine: non siamo destinati all’annientamento, ma alla comunione con il Figlio e il Padre.
Questo racconto ci presenta il cuore del messaggio cristiano, che risponde al bisogno di felicità e pienezza presente in ogni uomo. Gesù è risurrezione e vita. La risurrezione è una vita che non ignora la morte; anzi passa attraverso di essa, dandole il suo vero significato.
La Chiesa crede che Gesù è il Figlio di Dio. Egli ha vissuto la sua morte violenta come dono della propria vita ai fratelli: in lui ci è offerta ora la possibilità di essere liberi dalla paura della morte, che ci tiene schiavi nell’egoismo, per vivere come lui nell’amore. Questa è la vita eterna, la vita piena che il Figlio è venuto a portare ai fratelli.
Tutto il Vangelo di Giovanni è scritto appunto perché crediamo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio e in lui abbiamo la vita eterna. (Gv.20,31)
“Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (Gv 11,25-26)
Marta risponde: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che viene nel mondo”.
A questo punto Marta è risorta, in questo momento Marta, credendo in Gesù, ha la vita eterna, mentre ancora è in vita, non solo dopo morta. Marta realizza pienamente quello che è l’obiettivo del Vangelo.
In questo testo la vera resurrezione è quella di Marta, non quella di Lazzaro. Lazzaro deve ancora risorgere, la sua rianimazione è solo un segno esterno che permette invece a Marta qualcosa di molto più profondo. Ed è proprio questo che il Vangelo si propone di raggiungere anche con noi che ascoltiamo/accogliamo tale Parola.
La risurrezione è credere nel Signore, nel Cristo, nel Figlio di Dio che viene nel mondo ad aprire i nostri sepolcri, a comunicarci la sua vita, ad eliminare per sempre la morte perché ci dona una vita nell’amore. E l’amore è eterno perché viene da Dio, perché l’amore è Dio stesso.
Proviamo ad immaginare se al mondo cominciassimo – oltre che a far digiuno, pratica richiesta in quaresima – a non mangiare il prossimo, e magari anche ad amare tutti come fratelli: questa sarebbe l’apertura di tutti i sepolcri, potremmo tutti sperimentare il passaggio dalla morte alla vita, sarebbero i cieli nuovi e la terra nuova promessi da Isaia: “quando le spade diventeranno falci, le lance vomeri.” (Is. 2,4)
Siamo abituati a leggere questo racconto semplicemente come il prodigio della risurrezione di Lazzaro, invece no, è il prodigio della risurrezione di quel morto che è dentro di noi.
Nel testo infatti si opera un passaggio di attenzione: prima si parla di un morto e della morte, ma alla fine l’attenzione è portata su il vivente, sull’Io-Sono e sulla vita che lui dà.
Chiediamo al Signore che apra i nostri occhi davanti a questa realtà che ci tocca tutti, una realtà che faremmo di tutto per sfuggire e che abbiamo sempre presente. Non è il fallimento che getta un’ombra di non senso su ogni cosa, ma è qualcosa di divino, addirittura il luogo dove si manifesta la Gloria di Dio in Cristo Gesù; è il punto d’arrivo dell’esistenza, non la distruzione dell’esistenza.
La risurrezione è il grande desiderio dell’uomo, desiderio di vita; però come capita per tutti i desideri più grandi e più autentici, siamo incapaci di realizzarlo.
L’oggetto del nostro desiderio non è le cose che faccio; le cose che faccio neanche le desidero più che tanto, le faccio perché sono da fare. Le cose fondamentali, invece, non sono da fare, sono oggetto di dono, come tutte le relazioni, le possiamo solo ricevere.
“Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14)
Riconoscermi figlio del Padre, accettarmi per ciò che sono, perché sono amato dal Padre, volermi bene come figlio …gli altri sono miei fratelli, è sperimentare una vita che è già passata dalla morte alla vita. Una vita nell’amore, in comunione con ciò che è all’origine (il Padre) e il fine (amarci come Cristo ci ha amato) è la vittoria sulla morte ora, è già vita eterna!
“Dove l’avete posto?” Dove? Sono le prime domande di Dio ad Adamo: “Dove sei?” – bello il commento di Silvano Fausti al riguardo – “tutta la Bibbia è la ricerca che Dio fa dell’uomo e finalmente lo trova, dove? Dove noi tutti l’abbiamo posto, dove ognuno è posto da un altro, dove a sua volta sarà posto anche lui. Penso che sia tutt’altro che una domanda che vuole individuare l’ubicazione. E’ una domanda che vuol portare ad una consapevolezza, vuol portare alla consapevolezza della situazione che coinvolge Lazzaro e coinvolge ogni persona. Chiede che ci rendiamo conto, perché così potrà intervenire, potrà agire.”
E sopra il sepolcro una pietra. Una pietra che è il principio di ogni separazione: dietro sta la morte, davanti sta la vita e tutto finirà lì. Quella pietra sulla quale noi abbiamo sempre gli occhi; quella pietra dietro la quale noi proiettiamo tutto quello che temiamo, viene sollevata e noi guardiamo sempre quella pietra.
Gesù invece cosa fa? Solleva gli occhi in alto verso il cielo, verso il Padre.
Dipende dove si guarda: se io guardo il mio essere terra finisco lì nella terra, se sollevo gli occhi verso il Padre e lo ringrazio per il dono della vita, sono in comunione con il Padre, sono figlio e ho la vita. È davvero molto importante dove guardiamo, perché vediamo quello che guardiamo.
Se guardiamo la terra, quindi la nostra morte, vivremo per tutta la vita la nostra paura di morte, rischiamo di chiuderci e di non trovare alcun senso a nulla.
Ma noi umani siamo davvero abbastanza complessi, certo siamo impastati di terra, quindi di limite, di morte, ma anche di amore, di speranza, di soffio divino, e se guardiamo il soffio divino e se guardiamo al Padre …sappiamo essere figli e vivere la vita da figli e vivere già qui la vita eterna.
Non c’è nulla da chiedere al Padre, mi ha già dato tutto!
C’è solo da ringraziare e da riconoscere il dono che mi ha fatto: essere Figlio di Dio; Gesù, il vivente, ci vuol trasmettere questa coscienza di figli amati dal Padre, ed è questa la risurrezione che ci fa vivere da figli di Dio e quindi da fratelli tra noi sulla terra.
Perché il problema non è entrare nel sepolcro, non è uscire dal sepolcro per ritornarci ancora.
Il problema è fare una vita che abbia gli occhi verso il Padre e verso i fratelli e questa è la vita eterna e la risurrezione che Gesù è venuto a portare, cioè una vita nuova nell’amore.
“Slegatelo! Lasciate che se ne vada!”.
“Slegatelo!”; siamo noi a legarlo!
“Lasciate che se ne vada!” Andarsene è la parola che Gesù usa per sé stesso.
Lui non dice mai che muore, dice che se ne va al Padre.
Lasciare che i morti se ne vadano al Padre, perché lì andremo anche noi e la morte è la realizzazione piena della comunione con Dio. Solo così possiamo vivere una vita tranquilla e serena.
La mia fine non è la distruzione di tutto ciò che è bello e buono, se no perché vivo?
La mia fine è il mio compimento nella comunione,
il mio andarmene al Padre, il mio venire alla luce.
Ecco, questa è la risurrezione che possiamo vivere già in questa vita.
Significativo: questo ordine è dato non a Lazzaro: “Levategli le bende!”
Noi abbiamo bendate le mani e i piedi – prima i piedi – i nostri piedi non sanno seguire il buon Pastore, colui che ci conduce alla vita, seguiamo tutte le nostre paure; poi le mani, quelle mani che prendono, spezzano e danno: le nostre mani sono legate nello spezzare il pane, nel dare la vita, nel ricevere la vita.
Non si dice più nulla di Lazzaro qui, mentre a noi sarebbe interessato sapere se lo avessero slegato o no. Ma in fondo abbiamo capito che dipende da noi adesso, dipende da te e da me, dipende dal rapporto che abbiamo con la morte e con la vita: se sleghi lui, sleghi te.
Se tu hai un’altra visione della morte, un’altra visione della vita, sei illuminato sulla vita e sarai sciolto, camminerai, sai che la tua vita va incontro al Padre attraverso i fratelli.