Leggevamo l’altro giorno che noi popolazioni occidentali, che viviamo da 75 anni in una società senza guerre, non siamo più capaci di resistere ad un evento che improvvisamente impatta e manda all’aria i nostri equilibri fatti da concrete e precise certezze.
Ci sono infatti appuntamenti e ritualità che rassicurano, ci fan sentire parte di qualcosa, allontanano la solitudine…
Il valore di queste certezze nella vita di un individuo e di una società è chiaro. E ovviamente neppure la nostra esperienza religiosa sfugge all’esigenza di alcune certezze regolari: i nostri riti, le nostre celebrazioni, i nostri incontri comunitari, pur con diverse sfumature e diverse intensità, ci mancano.
Certe ingiunzioni in questi giorni, arrivate dalle autorità civili, a qualcuno sono sembrate una forzatura alla propria legittima modalità di esprimere la propria religiosità. In un passato non molto lontano e in luoghi relativamente vicini senz’altro azioni di governi sono stati dei veri e propri soprusi alla libertà religiosa… ma c’è una radicale differenza con la realtà di questi giorni.
L’azione istituzionale attuale non è tesa a violare i diritti umani né ad attaccare espressamente la fede cristiana, ma cerca di governare in maniera ordinata una situazione che tutti comprendiamo assai grave.
La ritualità ordinaria con la quale manifestiamo la fede in questi giorni è sostanzialmente modificata.
Ma la fede rimane altra.
Ciò che anima e motiva il nostro agire, il nostro fidarci di Dio e di affidarci a Lui, alla sua Parola, non può venire intaccato dal vivere o meno certe ritualità.
Forse, in questo tempo, la virtù che corre più rischi non è la fede: ad essere scossa in quanto tale è la speranza, che può rivelarsi in uno sguardo cupo sul futuro.
D’altra parte dobbiamo riconoscere che già da tempo, anche tra noi cristiani, si percepisce uno sguardo al futuro come a qualcosa di sempre prevedibile, programmabile, quasi fosse interamente nelle nostre mani.
Il mito di una scienza che tutto conosce e tutto risolve continua ad aleggiare, e ammettiamolo: più di uno di noi si muove, nella quotidianità della propria vita, in una sottesa percezione che tutto sia pressoché conosciuto e tutto sia possibile controllare e magari dominare.
Si può intravvedere questa percezione e questa sostanziale mancanza di speranza anche nella pretesa di una data in cui l’emergenza finisca, giorno che, specialmente il mondo produttivo (giustamente?), reclama. Come vi fosse qualcuno oggi in grado di prevedere l’evoluzione di un virus di cui si conosce la struttura genetica, ma non la sua capacità di evoluzione e di sopravvivenza.
La speranza, invece, è quella virtù che consente uno sguardo benevolo e vitale su un futuro imprevedibile.
Chi può dire che il Coronavirus, accanto a portare lutto e paura, non possa trasformarsi in occasione di bene? (prego di considerare davvero lontani da questo riflettere la superficialità o il cinismo)
Forse occorreranno anni per poterlo guardare così, ma può darsi anche la possibilità che, tra un decennio, questi giorni rappresentino non un lontano ricordo ma la scoperta di un modo di vivere differente.
Dei segnali ci sono, li stiamo percependo, li stiamo ricevendo, li stiamo dando.
Certo che problemi, difficoltà e ripercussioni evidentemente ci saranno, magari economicamente saranno davvero preoccupanti.
Ma animati dalla fede, noi non possiamo perdere il dono/scelta della speranza: la capacità/volontà di vedere l’essenziale, la verità e una rinnovata bellezza della vita… che si presenta a noi in forme nuove, magari anche in forme diverse di pensare il nostro rapporto con il lavoro, con il denaro: un nuovo modo di ripensare alle relazioni e alla comunità.